La poesia può essere letta silenziosamente, dalle pagine di un libro, risuonando solo nella nostra mente. Può essere recitata ad alta voce, ancora nell'intimità della nostra stanza o declamata pubblicamente in una grande sala, può essere ascoltata contemporaneamente da migliaia di persone alla radio, alla televisione, in streaming.
La poesia diventa musica, 'altra' musica rispetto al suono dei versi, quando viene filtrata dal cuore e dal genio dei compositori di musica vocale.
La poesia diventa canto quando un*interprete la porta al mondo, rinnovando quell'intreccio strettissimo di parole e musica che affonda le sue radici nella notte dei tempi e del mito.
Ogni giorno è la giornata della poesia, per chi ha la fortuna di vivere di canto.
La poesia è una palestra di creatività, e non solo per chi la scrive. Ci insegna a risuonare, a pensare. Ci aiuta a riconoscere e a separare, dandogli un nome, i sentimenti e le sensazioni che nella nostra vita spesso scorrono veloci, come un fiume in piena. In questo senso ci regala così del tempo, attimi preziosi per restare ancorati a noi stessi, e ci (ri)concilia con la vita e le sue ragioni.
La poesia riesce a dire sensazioni ed esperienze a cui spesso non sappiamo dare voce, le definisce, le nomina, ne traccia i contorni. Naming is taming: essere in grado di nominare e le cose, le addomestica e le rende più comprensibili, accettabili, vivibili.
La poesia ci insegna a sentire senza paura di soffrire e a mettere nero su bianco senza ansia di perfezione.
Cantare la poesia è un esercizio continuo di fusione e rispecchiamento nell’altro da sé. Non si possono semplicemente ‘emettere’ parole e versi, come fossero solo suoni di una pur ricca carta fonetica. O, meglio, si può, ma a scapito della gioia e dell’intensità che risiedono nell’esperienza artistica della voce cantata, per noi stessi e per chi ci ascolta.
La poesia chiama altra poesia: se impariamo a leggerla con apertura e curiosità noi stessi diventiamo poeti, in forma di persone che praticano l’attenzione per il mondo che le circonda e la presenza in ogni momento della propria vita.
In questa giornata di poesia, primavera e pandemia, penso alle farfalle gialle. Quelle di una poesia di Pavel Friedmann, battuta a macchina su carta velina nel campo di concentramento di Terezin, nel 1942, che frequentano quel luogo di morte solo perché vivono ancora nei ricordi felici di un ragazzo. Un altra farfalla gialla è protagonista di alcuni versi di Mörike, musicati da Hugo Wolf, e si muove con l'incertezza di chi è uscita troppo presto dal bozzolo e non sa se riuscirà a vedere la piena primavera.
L'ultima, proprio l'ultima,
di un giallo così intenso, così
assolutamente giallo.
come una lacrima di sole quando cade
sopra una roccia bianca
- così gialla, così gialla! -
l'ultima,
volava in alto leggera,
aleggiava sicura
per baciare il suo ultimo mondo.
Tra qualche giorno
sarà la mia settima settimana
di ghetto:
i miei mi hanno ritrovato qui
e qui mi chiamano i fiori di ruta
e il bianco candeliere del castagno
nel cortile.
Ma qui non ho visto nessuna farfalla.
Quella dell'altra volta fu l'ultima:
le farfalle non vivono nel ghetto.
4-6-1942 Pavel Friedmann
Crudele sole di primavera, tu mi svegli prima del tempo:
ché solo nell'estasi di maggio il mio delicato cibo matura.
Se qui non c'è una cara fanciulla
che voglia offrirmi una goccia di miele dalle sue rosee labbra,
io dovrò morire miseramente,
e il maggio non mi vedrà mai nella mia veste gialla.
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